Troll the VIP. L’anonimato e Twitter
Di poche settimane fa è la notizia dell’abbandono di Twitter da parte di Enrico Mentana, accompagnato da una pesante critica verso quella che lui definisce “una comunità in cui i sentimenti prevalenti sono quelli di ostilità”, che ha generato sul web una vera e propria tempesta di opinioni contrastanti.
I commenti delle testate online, degli utenti dei social network e di tutto il limitrofo cosmo dei blogger si sprecano, e tra le voci dei difensori e dei detrattori dei “VIP su Twitter” si solleva anche quella di un altro popolare giornalista, Roberto Saviano. Proprio quest’ultimo infatti in un articolo su Repubblica esprime la sua posizione circa l’utilizzo del social network, sull’anonimato degli utenti e sulla necessità di imporre delle norme che regolamentino l’utilizzo della piattaforma. Il web si divide ulteriormente tra chi si schiera contro ogni forma di censura, e chi invece ritiene che sia necessario un controllo “dall’alto”, che vada oltre il semplice buonsenso degli utenti.
Al di là delle problematiche tecniche (è possibile implementare una forma efficace di controllo su un flusso continuo di milioni di contenuti?) e delle posizioni più o meno condivisibili di entrambe le parti, è utile fare una riflessione ed un’analisi su quanto accaduto.
Se da un lato, per riportare le parole di Saviano, ci troviamo di fronte ad un web “neocinico”, da cui emerge una fetta di utenti che nascosta dietro a nickname si dipinge come disillusa, aggressiva, ostile, incapace di contenere i toni e di affrontare il dialogo in maniera educata, dall’altra troviamo giornalisti, uomini di spettacolo, politici che, cresciuti e formatisi sulla precedente generazione di media (testate giornalistiche e televisione in primis), abituati al monologo, ad un’informazione fruita unilateralmente, ora osservano attoniti ed impacciati un mezzo di comunicazione in cui tutti sono possibili nodi di informazione, e di cui stanno ancora cercando di capire e di padroneggiare le logiche.
In realtà il turpiloquio online non è certo una novità, nè tantomeno esclusiva di Twitter. Basti pensare che esistono intere comunità online divenute famose per il “cattivo gusto” (una su tutte) dei contenuti e dei commenti degli utenti. In una visione volutamente riduzionista di determinismo tecnologico possiamo vedere il crescere dell’aggressività degli utenti, nel parziale anonimato garantito da un nickname, come un mutamento sociale inevitabile, frutto di una tecnologia nuova.
Chiunque adesso può iscriversi, nascondersi dietro un profilo, aggredire verbalmente. Su Twitter, poi, i 140 caratteri dell’utente sconosciuto valgono, all’atto della scrittura, tanto quanto quelli della persona famosa ed influente, e tutti sono, di default, liberi di replicare alle affermazioni di chiunque. In questo contesto la satira, intesa come come critica alla società e messa in ridicolo del potente, diventa molto più visibile, e molto meno controllabile.
I forum e le comunità online, pur proteggendo l’anonimato dell’individuo se questi lo desidera, basano da ormai un ventennio la convivenza reciproca sulla “netiquette”, e mettono a disposizione dei meccanismi di controllo (ad esempio il ban) per regolare il comportamento degli utenti. Twitter, seguendo la stessa logica, mette a disposizione la possibilità di bloccare individui ritenuti inopportuni, senza obbligare ogni utente a fornire informazioni aggiuntive su di sé in caso non lo desideri.
Senza scendere in considerazioni di carattere politico, viene da pensare che forse il problema, più che di Twitter, è di un’Italia dell’informazione videocratica, che deve ancora digerire il passaggio lento ed inesorabile alle nuove forme di media digitali.
Nel frattempo, “don’t feed the troll”.